IL TRIBUNALE DELLA LIBERTA'
    Ha  emesso la seguente ordinanza sull'appello proposto dal p.m. di
 Reggio Calabria avverso l'ordinanza del g.i.p. del 30  novembre  1992
 con  la quale veniva rigettata la richiesta della misura cautelare di
 custodia in carcere nei confronti di Pannuti  Luigi  indagato  per  i
 reati di concussione e di omessa denuncia.
    All'udienza  camerale  del  21  dicembre  1992  il p.m. proponeva:
 questione di legittimita' costituzionale dell'art. 310, terzo  comma,
 del c.p.p., per contrasto con gli artt. 76, 3 e 13 della Costituzione
 nella  parte  in cui, al terzo comma, prevede che "l'esecuzione della
 decisione con  la  quale  il  tribunale,  accogliendo  l'appello  del
 pubblico  ministero,  dispone una misura cautelare, e' sospesa fino a
 che la decisione non e' divenuta definitiva".
    La  questione   sopra   prospettata   appare   rilevante   e   non
 manifestamente infondata per i seguenti motivi:
    1. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 310, terzo comma, del
 c.p.p.,  per  violazione dell'art. 76 della Costituzione in relazione
 alla legge delega 16 febbraio 1987, n. 81, art. 2, primo comma, n. 3.
    Quanto alla non manifesta infondatezza si osserva che l'art.  310,
 terzo  comma, del c.p.p. subordina l'esecutivita' della decisione del
 tribunale della liberta' di accoglimento  dell'appello  del  pubblico
 ministero  al fatto che la stessa sia divenuta definitiva, e cio' o a
 seguito di decorrenza dei termini di impugnazione  del  provvedimento
 col  mezzo  di  ricorso per Cassazione, o in conseguenza di decisione
 della suddetta Corte che respinga, o comunque, dichiari inammissibile
 il proposto gravame.
    Questa norma  non  trova  alcuna  giustificazione  in  un  sistema
 processuale  che  si  ispira  ad  una sostanziale equiparazione della
 posizione della difesa con quella dell'accusa - sebbene cio'  avvenga
 in   termini   funzionalmente   contrapposti  -  e  che  tra  l'altro
 costituisce espressione di un criterio ispirativo formalizzato  nella
 stessa  legge  delega  del 16 febbraio 1987, n. 81, laddove l'art. 2,
 primo comma, n. 3) della legge in commento dispone che il  codice  di
 procedura  penale  deve  attuare i caratteri del sistema accusatorio,
 secondo i principi ed i criteri indicati, tra i  quali,  di  primaria
 importanza,  si  evidenzia  quello  secondo  cui  "la  partecipazione
 dell'accusa e della difesa (deve avvenire) su basi di parita' in ogni
 stato e grado del procedimento".
    Detto art. 2, inoltre, al punto n. 59), ultima parte, in relazione
 alle direttive che vengono illustrate al legislatore delegato in tema
 di  impugnabilita'  dei  provvedimenti  che  dispongono  una   misura
 cautelare, prevede soltanto "la riesaminabilita' anche nel merito del
 provvedimento  che  decide  sulla  misura  di  coercizione dinanzi al
 tribunale in camera di consiglio, con garanzia del contraddittorio  e
 ricorribilita' per Cassazione; previsione dell'immediata esecutivita'
 del provvedimento che pone in liberta' l'imputato".
    La  richiamata disposizione, quindi, non prevede in alcun modo che
 il  provvedimento  con  cui  il  tribunale  della  liberta'  accoglie
 l'appello del p.m. debba essere sospeso in attesa della definitivita'
 del  medesimo  di modo che l'art. 310 del c.p.p., terzo comma, appare
 con ogni evidenza in pieno contrasto con la legge delega che tace sul
 punto, specificando la stessa soltanto che il provvedimento che  pone
 in liberta' l'imputato debba essere immediatamente esecutivo.
    Appare   dunque   evidente   il  contrasto  con  l'art.  76  della
 Costituzione per difetto di delega,  posto  che,  se  il  legislatore
 delegante  si  e' preoccupato di specificare l'immediata esecutivita'
 dei provvedimenti che dispongono la  liberta'  dell'imputato,  lo  ha
 fatto  senz'altro  per  garantire  una  sostanziale  equiparazione  -
 seppure di segno inverso, perche' conforme ad equita'  -  con  quella
 previsione  legislativa  che  il  legislatore delegato avrebbe dovuto
 emanare, e cioe'  quella  concernente  l'immediata  esecutivita'  del
 provvedimento   del   tribunale   della   liberta'   di  accoglimento
 dell'appello del pubblico ministero.
    E che questa sia l'unica plausibile interpretazione da  dare  alla
 volonta'  del  legislatore delegante si trae dal fatto che, se avesse
 voluto far  intendere  altrimenti  ed  in  senso  conforme  a  quanto
 statuito  dal  censurato  articolo  (e  cioe'  nel  senso  di  negare
 l'immediata esecutivita' all'appello del p.m., accolto dal  tribunale
 della  liberta')  avrebbe  provveduto  espressamente  gia' in sede di
 delega, cosi' come ha fatto  per  l'ipotesi  inversa,  non  potendosi
 ritenere  che  avrebbe  omesso  un  richiamo che appare della massima
 importanza per il legislatore delegato, non solo  perche'  del  tutto
 innovativo  nel  sistema  codicistico  italiano,  dal momento che una
 norma analoga non era prevista nel previgente art. 263 del  c.p.p.  -
 sempre  in tema di appello del pubblico ministero -, ma anche perche'
 trattasi di disposizione di non poco momento,  che  e'  in  grado  di
 frustrare  enormemente  l'attivita'  investigativa  in  corso a causa
 dell'inevitabile intempestivita'  dell'esecuzione  del  provvedimento
 cautelare,   che  determina  nella  quasi  generalita'  dei  casi  un
 pregiudizio spesso irreversibile  in  ordine  all'acquisizione  delle
 fonti  di prova, oltre al fatto di obbligare il pubblico ministero ad
 una anticipata discovery.
    Ne' e' plausibile parlare della norma di cui all'art.  310,  terzo
 comma,  come  una  possibile  applicazione  del  principio  del favor
 libertatis, cosi' come fa la relazione ministeriale al  progetto  del
 vigente  codice  di  procedura  penale  in  sede di illustrazione del
 citato articolo, perche' innanzitutto non vi e' alcuna previsione  in
 tal  senso  nella  legge  delega,  per  come  si  e'  avuto  modo  di
 evidenziare,  e  poi  perche'  detto  principio  non  puo'  ricervere
 un'indiscriminata      applicazione     perche',     ontologicamente,
 l'applicazione di dette misure attualizza un concreto  superamento  -
 nei  casi  e  nelle  forme  previste  dalla legge - delle esigenze di
 liberta'  per  preminenti  esigenze  di   giustizia   connesse   allo
 svolgimento   delle   indagini,  che  altrimenti  vengono  del  tutto
 vanificate nel loro esito - come di fatto avviene,  stante  l'attuale
 formulazione  dell'art.  310,  terzo  comma,  del  c.p.p.  -  sino ad
 arrivare al paradosso giuridico che la norma  in  questione  crea,  e
 cioe'  quello  di  prefigurare  un  piu' che legittimo spunto perche'
 l'indagato si determini alla fuga valendo la decisione del  tribunale
 come  una  spada  di  Damocle  sulla  sua  liberta', pronta ad essere
 limitata una volta intervenuta la esecutivita' dell'appello medesimo.
    Tutto cio' comporta, come naturale conseguenza, la proposizione di
 ricorsi per Cassazione del tutto  dilatori,  utilizzati  come  comodo
 espediente  per  rifuggire  ad  una  decisione solo sospesa nella sua
 esecuzione  ma  gia'  chiara  nei  contenuti  che   sono   pienamente
 conosciuti dall'indagato, ricorrente.
    2.  -  Illegittimita'  costituzionale  art.  310, terzo comma, del
 c.p.p.  per  violazione  dell'art.  13,  secondo  comma,  e  3  della
 Costituzione.
    Ma,  ove  cio' non bastasse, si segnala, altresi' il contrasto del
 su richiamato art.  310,  terzo  comma,  con  l'art.  13  e  3  della
 Costituzione,  in quanto, in tema di applicazione di misure cautelari
 personali, si registra un'assurda disparita' di poteri tra il giudice
 per le indagini preliminari ed il tribunale della liberta'.
   Infatti, mentre il giudice per le indagini preliminari pronuncia il
 provvedimento restrittivo sulla base  delle  richieste  del  p.m.  ed
 inaudita  altera parte, ponendo in essere un provvedimento che, se di
 accoglimento   della   richiesta    dell'organo    dell'accusa,    e'
 immediatamente   eseguibile,   vicerversa,  ove  detto  provvedimento
 restrittivo venga adottato  dal  tribunale  della  liberta'  (che  e'
 organo  collegiale  e  non  monocratico  ed opera con le garanzie del
 contradditorio nelle  forme  di  cui  allo  stesso  articolo),  detta
 decisione,   pur   non   essendo   inutiliter  data,  stante  la  sua
 esecutivita' sospesa  in  attesa  della  definitivita'  della  stessa
 decisione,  di  fatto e' come se lo fosse, tanto da indurre lo stesso
 tribunale della liberta', il piu'  delle  volte,  a  non  emanare  il
 provvedimento  restrittivo  perche',  valutato  il  tempo  necessario
 perche' il provvedimento medesimo venga eseguito, lo stesso non viene
 a  monte  adottato,  ritenendosi  che  le  esigenze   cautelari   che
 l'accoglimento   dell'appello   stesso   dovrebbe   assicurare  siano
 ampiamente vanificate dal decorso del tempo.
    Ne consegue, in termini di  rilevanza  della  questione  esaminata
 che,  l'art.  310,  terzo comma, del c.p.p. pur essendo una norma che
 opera  dopo  l'emissione  del  provvedimento  cautelare   a   seguito
 dell'accoglimento  dell'appello,  di fatto, ne condiziona la concreta
 emanazione, non foss'altro per i poteri decisori di cui e' dotato  il
 tribunale  della  liberta';  poteri che comprendono, nel ventaglio di
 richieste prospettate dal pubblico ministero - e salva  l'ipotesi  di
 cui  all'art.  291,  comma  1-  bis  del  c.p.p. - la possibilita' di
 irrogare la  misura  cautelare  ritenuta  piu'  opportuna  secondo  i
 creteri  di  adeguatezza  e di proporzionalita', la cui emanazione il
 tribunale deve necessariamente valutare non solo con  riferimento  al
 momento  della  richiesta  da  parte  del  p.m. al g.i.p., ma anche e
 sorprattutto alla luce delle  esigenze  cautelari  che  permangono  o
 residuano  al  momento  della decisione dell'appello, in quanto senza
 quest'ulteriore valutazione l'appello medesimo si ridurrebbe  ad  una
 sterile  rivisione  di  alcune  censure,  del tutto disancorata da un
 substrato cautelare che deve essere immanente secondo i parametri  di
 cui  all'art. 272 del c.p.p., per come si ricava dallo stesso sistema
 dei criteri di adeguatezza e proporzionalita' delle misure cautelari,
 che  altrimenti  verrebbero applicate fuori dei casi prescritti dalla
 legge e con compressione ingiustificata della liberta' personale.
    Ed ancora, si rileva che la detta questione di costituzionalita' -
 nei termini nei quali e' stata sollevata - non poteva  che  porsi  in
 questa  fase,  posto  che  il  pubblico  ministero  e' organo che non
 possiede un potere che motu proprio  lo  abiliti  a  prospettare  una
 questione di legittimita' costituzionale, la quale non puo' che porsi
 in  via  incidentale,  e cioe' nel corso di un giudizio, e questo non
 puo' che essere lo stesso appello promosso a seguito di rigetto della
 richiesta di custodia  cautelare  da  parte  del  g.i.p.,  in  quanto
 l'altra  strada  astrattamente  percorribile - qual'e' il giudizio in
 sede di incidente di esecuzione - di fatto e'  terreno  impraticabile
 per  il  p.m.,  stante  l'attuale  formulazione  dell'art. 310, terzo
 comma, che in questa sede si censura, dal momento  che  se  il  p.m.,
 dinanzi ad un provvedimento di accoglimento dell'appello da parte del
 tribunale della liberta', emettesse ordine di esecuzione prima che lo
 stesso  divenisse  esecutivo  al  fine  di  provocare un incidente di
 esecuzione nel corso del quale  prospettare  l'attuale  questione  di
 incostituzionalita' dell'articolo in commento, si esporrebbe non solo
 a  procedimento  disciplinare, ma anche ad un procedimento penale per
 abuso d'ufficio.
    Non si comprende, inoltre, perche' in favor libertatis  che  viene
 invocato come fondamento (peraltro discutibile) della sospensione del
 provvedimento  emesso  in  sede di accoglimento dell'appello del p.m.
 non operi, invece, in una fase (qual'e' quella  della  decisione  del
 giudice  delle  indagini preliminari) in cui - almeno astrattamente -
 vi sarebbero maggiori  ragioni  che  operasse,  perche'  trattasi  di
 decisione  che  scaturisce da un organo monocratico, e senza garanzie
 di contraddittorio, laddove il  tribunale  della  liberta'  funge  da
 organo  d'appello  per  tutti  i  provvedimenti  emessi  da qualunque
 giudice in merito alla liberta' personale.
    Alla luce di quanto sopra  esposto  si  evince  con  chiarezza  il
 pregiudizio  che  l'indagine  in corso riceverebbe da una paralisi di
 immediata esecutivita'  della  eventuale  pronuncia  di  accoglimento
 dell'appello,  sia  per innegabili esigenze probatorie, visto il caso
 per cui si procede di concussione ambientale, col fine principale  di
 bloccare  l'inquinamento della prova testimoniale, sia per evitare il
 compimento di delitti dello stesso tipo di quelli per cui si procede:
 esigenze queste che sono pienamente ostacolate dall'operare dell'art.
 310, terzo comma, del c.p.p., per le ragioni sopra esposte.